Per l’assegno di invalidità rileva il solo reddito personale

Ai fini della verifica della sussistenza del requisito reddituale previsto per il riconoscimento dell’ assegno di invalidità civile, anche dopo l’ entrata in vigore della I. n. 247/2007, occorre fare riferimento al reddito personale dell’assistito, con esclusione del reddito percepito dagli altri componenti del nucleo familiare. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza del 14 ottobre 2022, n. 30250.

La Corte d’Appello territoriale riconosceva alla richiedente il possesso del requisito sanitario per beneficiare dell’assegno di invalidità dalla data della revoca, ma dichiarava il diritto alla prestazione con decorrenza solo dalla data di entrata in vigore dell’art. 10 co. 5, D.L. 76/2013, convertito in legge 99 del 2013, e ciò in ragione della rilevanza del reddito personale, con esclusione di quello familiare, solo per effetto di tale legge sopravvenuta al procedimento amministrativo, in quanto la ricorrente aveva reddito personale utile mentre il reddito familiare superava il limite di legge.

Il ricorso proposto per la cassazione di tale decisione dall’assistita è stato accolto dalla Suprema Corte che ha ricordato che, in tema di assegno di invalidità civile, ai fini della verifica della sussistenza del requisito reddituale previsto per il riconoscimento del beneficio, anche nel periodo successivo alla entrata in vigore della I. n. 247 del 2007 occorre fare riferimento al reddito personale dell’assistito, con esclusione del reddito percepito dagli altri componenti del nucleo familiare.
Il Collegio ha ritenuto, peraltro, parimenti fondato il ricorso incidentale proposto dall’INPS, con il quale la sentenza impugnata veniva censurata per avere essa attribuito la prestazione pur in assenza di prova del requisito dell’ inoccupazione.

I Giudici di legittimità hanno, difatti, precisato che, in materia di pensione d’inabilità o di assegno d’invalidità, a favore degli invalidi civili, il cosiddetto requisito economico ed il requisito dell’incollocazione integrano un elemento costitutivo della pretesa, la mancanza del quale è deducibile o rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio. Tale deducibilità o rilevabilità d’ufficio sono, però, da rapportare alle preclusioni determinatesi nel processo e, in particolare, a quella derivante dal giudicato interno formatosi, qualora il giudice di primo grado abbia accolto la domanda all’esito della verifica del solo requisito sanitario, per effetto della mancata impugnazione della decisione implicita in ordine all’esistenza del requisito economico;

viceversa, nell’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda e l’interessato abbia appellato in ordine all’esclusione della sussistenza del requisito sanitario, come avvenuto nel caso in esame, la carenza del requisito economico è deducibile anche per la prima volta in appello, o rilevabile d’ufficio dal giudice di secondo grado, del quale il Ministero dell’Interno può censurare, con ricorso per cassazione, la decisione, espressa o implicita, in ordine alla sussistenza dello stesso requisito economico o dell’incollocazione, deducendo, con riguardo al caso di decisione implicita, il vizio di omesso esame di un punto decisivo.

Contratto part-time concluso in violazione delle norme: il minimale contributivo resta inderogabile

L’istituto del minimale contributivo si applica anche nell’ipotesi in cui siano stati conclusi contratti part-time in eccedenza rispetto al limite previsto dal contratto collettivo applicabile. Tanto è stato affermato dalla Corte di Cassazione con l’ ordinanza del 10 ottobre 2022, n. 29413.

I Giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il ricorso proposto avverso la sentenza d’appello che aveva accertato la debenza da parte del datore di lavoro di contributi e premi calcolati secondo il principio della contribuzione virtuale per i contratti part-time stipulati in numero superiore alla quota massima percentuale fissata dal CCNL applicabile.

La Corte di merito, nella fattispecie, aveva applicato il minimale contributivo ex art. 29 DL 244/95, non derogabile da pattuizioni delle parti nemmeno collettive, ed anzi confermato dal sopravvenuto art. 29 CCNL.

Tale sentenza è stata impugnata dal datore di lavoro il quale ha sostenuto che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto che il superamento dei limiti percentuali per la stipula dei contratti part-time implicasse la contribuzione su retribuzione virtuale. La stessa, inoltre, non aveva calcolato la contribuzione in relazione alle ore di lavoro pattuite, anche se inferiori a quelle minime contrattuali, equiparando così l’orario normale prestato a quello pieno.

La decisione impugnata è stata giudicata immune da censure dalla Suprema Corte che ha ribadito che l’istituto del minimale contributivo si applica anche nei casi, come quello sottoposto ad esame, in cui siano stati conclusi contratti part-time in eccedenza rispetto al limite previsto dal contratto collettivo applicabile.

Il complessivo valore economico delle retribuzioni imponibili di una data impresa, in caso di violazione del divieto di assunzioni a tempo parziale in misura superiore ad una determinata percentuale del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato, va, invero, commisurato alla retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro anche per i lavoratori assunti part-time in violazione del predetto divieto, a prescindere dalla circostanza che tali compensi siano stati effettivamente corrisposti.

L’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo del c.d. minimale contributivo, ossia all’importo della retribuzione che ai lavoratori di un determinato settore dovrebbe essere corrisposta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale.

Il Collegio ha, altresì, precisato che il valore economico complessivo delle retribuzioni imponibili può essere suscettibile di abbattimento solo nei casi di legittima previsione che incida sull’orario di lavoro, e non anche nei casi in cui la riduzione dell’ orario di lavoro avviene in violazione dei criteri normativi applicabili, come verificatosi nel caso di specie.

Pensione di anzianità con totalizzazione: i contributi figurativi per disoccupazione non sono computabili

I contributi figurativi per disoccupazione non si computano ai fini del perfezionamento del requisito dell’anzianità contributiva non inferiore a quaranta anni richiesto per l’accesso alla pensione di anzianità in regime di totalizzazione. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza del 13 ottobre 2022, n. 29968.

I Giudici di legittimità hanno accolto il ricorso proposto dall’INPS avverso la sentenza della Corte di Appello territoriale che aveva riconosciuto il diritto di un lavoratore a percepire la pensione di anzianità, computando, per l’accesso al trattamento con totalizzazione, i contributi figurativi per disoccupazione ai fini del conseguimento del requisito contributivo indipendente dall’età.

L’Ente previdenziale, nella fattispecie, censurava la sentenza impugnata in quanto i giudici di merito avevano trascurato che il diritto della pensione di anzianità in totalizzazione può derivare solo da requisito dei 40 anni di contribuzione a prescindere dall’età, non essendovi un requisito alternativo di contribuzione/età, non potendo, pertanto, essere considerati a tal fine i periodi di contribuzione figurativa.

La Cassazione ha ritenuto condivisibile la tesi dell’Istituto ricorrente, in quanto in linea con l’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi, in base al quale, in tema di pensione di anzianità per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, i contributi figurativi accreditati per il periodo in cui è stata corrisposta l’indennità di disoccupazione non si computano ai fini del perfezionamento del requisito dell’anzianità contributiva non inferiore a quaranta anni richiesto per l’accesso al trattamento in regime di totalizzazione (art. 4, co. 1, d.lgs. n. 42/2006), coerentemente con il principio generale secondo cui i contributi validi ai fini del conseguimento della pensione sono solo quelli relativi all’effettivo rapporto di lavoro e non quelli figurativi, salvo espresse e specifiche eccezioni, fra le quali non rientra l’indennità di disoccupazione.

Tanto premesso, la Corte ha, altresì, precisato che il principio generale, per cui l’accesso al trattamento di anzianità presuppone che la contribuzione sia effettiva, resta valido anche con riguardo al regime di totalizzazione, atteso che l’assenza di un’espressa previsione normativa nel senso dell’ effettività della contribuzione non consente di affermare l’utilità della contribuzione figurativa, ed in particolare di quella per disoccupazione, ai fini della formazione del requisito di accesso alla pensione di anzianità, dovendosi in generale escludere una totale equiparazione tra contributi effettivi e figurativi.